Pubblico impiego
Rassegna di giurisprudenza in merito al pubblico impiego

Bando
Rientra tra le scelte discrezionali della PA quella di richiedere nel bando di concorso il possesso dei requisiti generali di ammissione di cui alla legge L. n. 16 del 1992 E' del tutto legittimo inserire nel bando di concorso finalizzato al reclutamento del personale [ATA], tra i requisiti generali di ammissione al concorso, quelli previsti dalla L. n. 16 del 1992 [per l’elettorato attivo], ciò rientrando nella discrezionalità della pubblica amministrazione in funzione delle esigenze peculiari di determinati impieghi pubblici. Trattasi, dunque, di una scelta che risponde alle esigenze proprie di un settore, quale è quello scolastico, che presiede alla funzione educativa e che è connotato da un ordinamento che poggia sull'elevato grado di affidamento richiesto dalla specificità delle mansioni proprie del personale dipendente (personale docente e personale ATA) e che, anche nell'ambito della disciplina negoziale collettiva, richiama il D.Lgs. n. 297 del 2001, art. 58 (art. 95 c.c.n.l. Comparto Scuola 29 novembre 2007) (Cass., lav., 16 marzo 2022, n. 8631; cfr Cass. 16 febbraio 2021, n. 4057)
Interpretazione del bando di concorso. Secondo consolidata giurisprudenza, la legittimità delle prove condotte alla stregua di un quiz a risposta multipla implica che le domande conducano ad una risposta univoca ovvero che contemplino, tra le risposte da scegliere, quella indubitabilmente ed oggettivamente esatta (Cons. Stato, sez. VI, 13 settembre 2012, n.4862). Sebbene la Commissione giudicatrice disponga di un’ampia discrezionalità tecnica nella formulazione delle domande da sottoporre ai candidati nell’espletamento delle prove di concorso, tale attività può essere sindacata sia per irrazionalità dei quesiti sia per estraneità degli stessi alle materie di esame. Il bando, costituendo la lex specialis del concorso indetto per l’accesso al pubblico impiego, deve essere interpretato in termini strettamente letterali, con la conseguenza che le regole in esso contenute vincolano rigidamente l’operato dell’Amministrazione obbligata alla loro applicazione senza alcun margine di discrezionalità, in ragione sia dei richiamati principi dell’affidamento e di tutela della parità di trattamento tra i concorrenti, sia del più generale principio che vieta la disapplicazione del bando, quale atto con cui l’Amministrazione si è originariamente autovincolata nell’esercizio delle potestà connesse alla conduzione della procedura selettiva. In sostanza, le clausole del bando di concorso per l’accesso al pubblico impiego non possono essere assoggettate a procedimento ermeneutico in funzione integrativa, diretto ad evidenziare in esse pretesi significati impliciti o inespressi, ma vanno interpretate secondo il significato immediatamente evincibile dal tenore letterale delle parole e dalla loro connessione (Cons. Stato, sez. IV, 19 febbraio 2019, n.1148).
Clausole
Bando di concorso. Illegittima la clausola con la quale l'amministrazione si riserva di non assumere il vincitore. In tema di procedure concorsuali nel pubblico impiego, il diniego o ritardo nell'assunzione del vincitore non trova legittima giustificazione nella presenza nel bando di una "clausola di riserva" che consente all'Amministrazione di non procedere comunque all'assunzione, attesa la nullità di tale clausola, attributiva di una mera facoltà discrezionale di annullare o revocare il bando, tale da realizzare un "contrarius actus" illegittimo - disapplicabile dal giudice ordinario - poiché privo dei necessari requisiti di forma e integrante una fattispecie di autotutela esercitata in carenza di potere, in virtù dell'insorgere del diritto del vincitore del concorso ad essere assunto e del correlato obbligo dell'Amministrazione, assoggettato al regime di cui all'art. 1218 c.c. (Cass. Lav. 4 novembre 2024, n. 28330 Massime precedenti Vedi: N. 1399 del 2009 Rv. 606284-01 Massime precedenti Vedi Sezioni Unite: N. 23327 del 2009 Rv. 610353-01)
Requisiti
Qualità morali e di onorabilità: devono essere possedute anche al momento dell'assunzione. In tema di assunzione nelle amministrazioni di cui all'art. 35, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, che esercitano competenze istituzionali in materia di polizia e di difesa e sicurezza dello Stato, i requisiti riguardanti le qualità morali e di condotta, afferendo ai rigorosi presupposti comportamentali e di onorabilità connessi alle funzioni svolte ed essendo suscettibili di mutare nel tempo, devono essere comunque posseduti nel momento in cui in concreto si procede all'assunzione, a prescindere dalla loro ricorrenza all'espletamento delle procedure a tal fine indette dalla P.A. (Cass. Lav., 27 novembre 2024. n. 30577)
Incensurabilità della condotta. Ai fini dell'assunzione nelle amministrazioni di cui all'art. 35, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, per effetto del richiamo da esso fatto ad altre disposizioni di legge, rileva il requisito dell'incensurabilità della condotta, il quale costituisce un parametro dirimente per l'accesso ad impieghi per i quali è maggiormente sentita l'esigenza di assicurare la tutela della credibilità e del prestigio che devono contraddistinguere le corrispondenti funzioni, ed esprime un giudizio che prescinde dalla commissione di reati, attenendo più in generale alle modalità di comportamento nell'ambito della collettività (Cass. Lav., 27 novembre 2024. n. 30577)
Requisiti per l'accesso. Condanne penali ostative. Sono ostative all'accesso al pubblico impiego non soltanto le condanne penali previste espressamente come tali dalla normativa, ma anche quelle che, a rapporto già esistente, comporterebbero il licenziamento senza preavviso secondo la contrattazione collettiva di riferimento, previa valutazione in concreto, da parte della P.A., delle circostanze e del rilievo delle condanne rispetto al rapporto da instaurare. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il diniego di assunzione di un lavoratore manifestato da una Regione, dopo aver valutato la gravità della condotta addebitata, l'applicazione ex art. 444 c.p.p. della pena di due anni di reclusione per il reato di cui all'art. 3, comma 1, nn. 4 e 8, della l. n. 75 del 1958, la vicinanza temporale di quest'ultima, la sussistenza di altri precedenti penali minori, circostanze ritenute, nel loro insieme, incompatibili con l'assunzione) (Cass. Lavoro, 5 dicembre 2024, n. 31215)
Utilizzo delle graduatorie
In presenza di una graduatoria ancora valida, la decisione di bandire una nuova procedure concorsuale deve essere adeguatamente motivata. Bandire una nuova procedura concorsuale in vigenza di una precedente graduatoria valida, per il medesimo profilo professionale, senza adeguata motivazione e senza significative differenze nei requisiti richiesti e nei contenuti delle prove d'esame non risponde ai presupposti legittimanti stabiliti dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la pronuncia n. 14/2011. Non ha pregio, ad esempio e nel senso sopra detto, prevedere, per il reclutamento del medesimo profilo di "esperto amministrativo", nel nuovo bando, la sola laurea in giurisprudenza a fronte della precedente estensione anche a quelle in economia e commercio e scienze politiche (Consiglio di Stato, sezione V, nella sentenza 7 settembre 2022, n. 7780).
È possibile utilizzare le graduatorie per le assunzioni a tempo parziale per quelle a tempo pieno. Non sussiste alcuna differenziazione qualitativa e/o di profilo professionale tra le posizioni lavorative a tempo pieno e quelle a tempo parziale, poiché per entrambi il candidato deve possedere identici requisiti e superare specifiche prove concorsuali. Il numero dei partecipanti a una selezione è un fattore neutro e non comporta una minore affidabilità della procedura stessa né una differenza tale da infrangere la omogeneità nell'utilizzo delle rispettive graduatorie. Affinché una graduatoria possa essere utilizzata per la copertura di un posto reso disponibile, è sufficiente che ci sia corrispondenza sostanziale tra le categorie professionali di inquadramento del contratto collettivo nazionale, mentre non rilevano altri elementi, quali soprattutto l'organizzazione temporale del rapporto lavorativo (TAR Napoli, 21 novembre 2022, n. 7185)
Mobilità
Revoca del consenso per la mobilità (nel previgente regime). Danno da perdita di chance. Il dipendente pubblico che abbia preso parte ad una procedura di mobilità ex art. 30 d.lgs. n. 165 del 2001 e che, pur avendo superato la relativa selezione, non sia potuto transitare nella P.A. di destinazione a causa della revoca del consenso già validamente prestato dalla P.A. di appartenenza, avvenuta tardivamente ai sensi dell'art. 1328, comma 2, c.c., può agire contro quest'ultima per chiedere il risarcimento del danno da perdita della chance di beneficiare di un migliore trattamento economico, dovendo però dedurre e dimostrare che detta procedura avrebbe avuto esito positivo e che egli, alla luce dei titoli posseduti, avrebbe avuto concrete possibilità di ottenere tale migliore trattamento presso il nuovo datore di lavoro (Corte Cass, 4 marzo 2024, n. 5749)
Regola dell'anonimato anche per le prove pratiche. È illegittima la procedura concorsuale che, in contrasto con la regola dell’anonimato, consenta ai concorrenti, in sede di prova pratica espletata attraverso la redazione di un testo scritto, di apporre il proprio nominativo direttamente sui fogli contenenti l’elaborato, a ciò ostando i principi di imparzialità e di efficienza dell’azione amministrativa discendenti dall’articolo 97 della Costituzione. In applicazione del principio, il TAR ha accolto il ricorso proposto da alcuni candidati ed ha annullato il concorso per il reclutamento di personale docente della scuola secondaria di primo e secondo grado, disponendo la rinnovazione della prova pratica della procedura ed il rifacimento della graduatoria a partire dall'anno scolastico successivo a quello in corso, tenuto conto della immissione in ruolo dei vincitori del concorso e dell'esigenza di consentire la prosecuzione delle attività didattiche (TAR Marche, 24 febbraio 2025, n. 100)
La natura degli atti del datore di lavoro
L'art. 3 della legge 241/1990 (obbligo di motivazione degli atti amministartivi) non si applica agli atti del datore di lavoro pubblico. La motivazione dell'atto del datore di lavoro deve essere invece valutata alla luce dei principi di correttezza e buona fede nello svolgimento del rapporto di lavoro. Nell'impiego pubblico contrattualizzato, gli atti di gestione del rapporto, in quanto espressione dei poteri propri del datore di lavoro privato, hanno natura privatistica, con la conseguenza che il rispetto dell'obbligo di motivazione imposto dalla legge o dalla contrattazione collettiva va parametrato, da un lato, alla natura dell'atto ed agli effetti che esso produce, dall'altro, ai principi di correttezza e buona fede ai quali, nello svolgimento del rapporto di lavoro, è obbligato ad attenersi il datore di lavoro pubblico, senza che trovi applicazione l'art. 3 della l. n. 241 del 1990 che disciplina la motivazione degli atti amministrativi (Cass. Lav., 3 agosto 2022, n. 24122)
Mansioni
Allo ius variandi del datore di lavoro pubblico corrisponde un obbligo di flessibilità del dipendente . L'articolo 52 D.Lgs. 165/2001 non fonda un diritto del dipendente a svolgere tutte le mansioni considerate equivalenti dal CCNL ma piuttosto disciplina lo ius variandi del datore di lavoro, cui corrisponde un obbligo di flessibilità e non una pretesa del dipendente (Cassazione civ., lav., 25 febbraio 2021, n. 5240)
Il datore di lavoro pubblico può adattare i "profili professionali" (indicati nel contratto collettivo) alla proprie esigenze organizzative. E' nullo invece ogni atto che deroga a quanto previsto dal CCNL. In materia di pubblico impiego contrattualizzato, il datore di lavoro pubblico non ha il potere di attribuire inquadramenti in violazione del contratto collettivo, ma ha solo la possibilità di adattare i profili professionali, indicati a titolo esemplificativo nel contratto collettivo, alle sue esigenze organizzative, senza modificare la posizione giuridica ed economica stabilita dalle norme pattizie, in quanto il rapporto è regolato esclusivamente dai contratti collettivi e dalle leggi sul rapporto di lavoro privato. È conseguentemente nullo l'atto in deroga, anche in melius, alle disposizioni del contratto collettivo, dovendosi escludere che la P.A. possa intervenire con atti autoritativi nelle materie demandate alla contrattazione collettiva (v. Cass. Sez. Un., 21744 del 2009; v. pure ex plurimis, Cass. n. 10973 del 2015, 31387 del 2019) (Cassazione civ., lav., 2 febbraio 2021, n. 2276)
Il sindacato del giudice è limitato alla verifica della "equivalenza formale" delle prestazioni. Non si applica l'art. 2103 del c.c. In tema di pubblico impiego privatizzato, l'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001 assegna rilievo solo al criterio dell'equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare la natura equivalente della mansione, non potendosi avere riguardo alla norma generale di cui all'art. 2103 c.c. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva affermato l'illegittimità dell'assegnazione ai dipendenti del MIBACT - assunti con il profilo di "assistenti alla fruizione, accoglienza e vigilanza" - di mansioni di vigilanza e apertura e chiusura di sale, ambienti, bagni, rientranti nella stessa area di inquadramento del c.c.n.l. 2006-2009 del Comparto Ministeri) (Corte Cass, 16 gennaio 2024, n. 1665)
Mansioni superiori
Il procedimento operato dal giudice per determinare l'inquadramento: il c.d. giudizio trifasico. Il procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento di un lavoratore subordinato, che deve essere operato dal giudice di merito, si sviluppa in tre fasi successive, consistenti nell'accertamento in fatto delle attività lavorative concretamente svolte, nell'individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra i risultati di tali due indagini. Ai fini dell'osservanza di tale procedimento, è necessario che, pur senza rigide formalizzazioni, ciascuno dei suddetti momenti di ricognizione e valutazione trovi ingresso nel ragionamento decisorio (Cass., n. 30580 del 2019). Nella specie, la Corte d'Appello, dopo aver richiamato la disciplina relativa all'espletamento delle mansioni superiori nel pubblico impiego, ed in particolare l'art. 32 (recte: 52), del d.lgs., n. 165 del 2001, ha proceduto a svolgere il cd. ragionamento trifasico, riportando la qualifica di inquadramento e quella relativa alla qualifica superiore indicata in relazione alle mansioni superiori, con specifico riguardo alla posizione dei lavoratori, in aderenza alla giurisprudenza di legittimità in materia, rigettando la domanda dei lavoratori in esito all'accertamento di fatto svolto in ragione delle risultanze istruttorie. Pertanto, la Corte d'Appello ha fatto corretta applicazione della norma invocata dal ricorrente, secondo i principi enunciati da questa Corte” (Cassazione civ., lav., 29 novembre 2020, n. 20685)
Il diritto alla retribuzione per l'esercizio di fatto di masioni superiori non presuppone la legittimità dell'assegnazione dei compiti. In materia di pubblico impiego contrattualizzato il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscersi nella misura indicata nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 5, non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, nè all'operatività del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all'intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all'art. 36 Cost." (Cass. n. 2102 del 2019; conformi, fra altre: Cass. n. 18808 del 2013; Cass. n. 14775 del 2010) (Cass, lav., Ordinanza 20 giugno 2022, n. 19773). “In materia di pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscersi nella misura indicata nell'art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, né all'operatività del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all'intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all'art. 36 Cost. (Cass., 2102 del 2019) (Cassazione civ., lav., 29 novembre 2020, n. 20685)
L'esercizio di fatto di mansioni superiori comporta il diritto alla retribuzione propria di detta qualifica superiore. In materia di pubblico impiego contrattualizzato, lo svolgimento di fatto di mansioni proprie di una qualifica – anche non immediatamente – superiore a quella di inquadramento formale comporta in ogni caso, in forza del disposto dell’art. 52, comma 5, d.lgs. del 30 marzo 2001, n. 165, il diritto alla retribuzione propria di detta qualifica superiore (Cassazione civ., lav., 18 gennaio 2022, n. 1496)
L'accertamento di mansioni superiori deve essere operato avendo riguardo all'atto di macro-organizzazione. Nell'ambito del pubblico impiego contrattualizzato, l'accertamento dello svolgimento di mansioni superiori deve essere operato avuto riguardo all'atto di macro-organizzazione, di portata generale, con il quale l'amministrazione ha adattato alla propria struttura i profili professionali previsti dalla contrattazione collettiva, individuando i posti della pianta organica, dovendo escludersi che a tale compito possa provvedere il giudice, cui è devoluto il sindacato dei soli atti di organizzazione esecutiva, assunti con la capacità ed i poteri del datore di lavoro privato (Cass. n. 33401 del 2019; v. pure Cass. 28451 del 2018 e n. 18191 del 2016). Dunque, è errata la sentenza nella parte in cui ha ritenuto irrilevante la previsione in pianta organica di una determinata posizione organizzativa, come pure l'effettiva adibizione ad essa del ricorrente, peraltro dopo il superamento di una prova selettiva per l'idoneità allo svolgimento delle relative mansioni. L'impiegato pubblico cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori ha diritto, in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale (tra le altre, sentenze n. 908 del 1988; n. 57 del 1989; n. 236 del 1992; n. 296 del 1990), ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell'art. 36 Cost., che deve trovare integrale applicazione, senza sbarramenti temporali di alcun genere (Cass. S.U. n. 25837/2007; Cass. 23 febbraio 2009, n. 4367) diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscere nella misura indicata nell'art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all'intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all'art. 36 della Costituzione (Cass. n. 19812 del 2016; Cass. n. 18808 del 2013), sicché il diritto va escluso solo qualora l'espletamento sia avvenuto all'insaputa o contro la volontà dell'ente, oppure quando sia il frutto di una fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente, o in ogni ipotesi in cui si riscontri una situazione di illiceità per contrasto con norme fondamentali o generali o con principi basilari pubblicistici dell'ordinamento (Cass. n. 24266 del 2016; v. pure Cass. n. 30811 del 2018) (Cassazione civ., lav., 2 febbraio 2021, n. 2275 e 2276)
Lo svolgimento di fatto di mansioni superiori non giustifica una diligenza inferiore da parte del lavoratore. Lo svolgimento di fatto di mansioni superiori rispetto alla qualifica di inquadramento non giustifica, di per sé, una diligenza inferiore a quella ordinaria, poiché il giudizio sulla diligenza esigibile deve tener conto dell'insieme di circostanze del fatto concreto, tra cui la complessiva esperienza maturata dal lavoratore, la formazione ricevuta ed i motivi che hanno determinato l'assegnazione delle mansioni superiori (Cass. Lavoro, 13 aprile 2022, n. 12038)
Mansioni aggiuntive estranee alla "classificazione professione" (nel regime previgente). Il lavoratore pubblico ha diritto ad un compenso per prestazioni aggiuntive purché i compiti, espletati in concreto, integrino una mansione ulteriore rispetto a quella che il datore di lavoro può esigere in forza dell'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001. L'adeguamento retribuito ex art. 36 Cost è ammissibile solo se L'art. 52 del d.lgs. n. 165/2001, nel testo applicabile ratione temporis alla fattispecie, prevede che il prestatore di lavoro deve essere adibito "alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell'ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi". Gli artt. 2 e 45 del decreto riservano, poi, alla contrattazione collettiva la definizione del trattamento economico fondamentale ed accessorio, escludendo che il datore di lavoro pubblico, nel contratto individuale, possa attribuire un trattamento diverso, anche se di miglior favore per il dipendente. Analizzando il complesso di dette disposizioni questa Corte ha ripetutamente affermato che la disciplina tiene conto delle perduranti peculiarità relative alla natura pubblica del datore, condizionato nella organizzazione del lavoro da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria delle risorse (in tal senso Cass. 21 maggio 2009, n. 11835 e Cass. 11 maggio 2010, n. 11405). Non è poi senza rilievo, ai fini che qui interessano, sottolineare che il datore di lavoro pubblico incontra precisi limiti nella determinazione del trattamento economico spettante al personale, poiché detta voce di spesa deve essere "evidente, certa e prevedibile nella evoluzione" (art. 8), con la conseguenza che il trattamento economico non può che essere quello definito dai contratti collettivi (art. 45, commi 1 e 2), la cui conclusione è assoggettata ad un rigoroso procedimento di determinazione degli oneri finanziari conseguenti (art. 47). La questione che qui viene in rilievo, relativa alla sussistenza del diritto del dipendente pubblico ad essere retribuito ex art. 36 Cost, per la prestazione aggiuntiva resa nell'ambito del normale orario di lavoro, non può prescindere dal quadro normativo e contrattuale sopra delineato nei suoi tratti essenziali. Dai principi di diritto richiamati, infatti, discende innanzitutto che il parametro di riferimento per la stessa configurabilità in astratto di una "prestazione aggiuntiva" deve essere il sistema di classificazione dettato dalla contrattazione collettiva, giacché la mansione potrà essere considerata ulteriore rispetto a quelle che il datore di lavoro può legittimamente esigere ex art. 52 d.lgs. n. 165/2001 solo a condizione che la stessa esuli dal profilo professionale delineato in via generale dalle parti collettive. Non a caso le pronunce di questa Corte (Cass. 19 marzo 2008, n. 7387 e Cass. 3 giugno 2014, n.12358), che hanno ammesso la astratta possibilità di riconoscere ex art. 36 Cost. una maggiorazione stipendiale al dipendente pubblico chiamato a svolgere mansioni aggiuntive, si riferivano a fattispecie nelle quali le prestazioni ulteriori pacificamente non erano ricomprese nel profilo, come delineato in un caso dalla legge nell'altro dalla contrattazione collettiva. In tal senso, questa Corte ha già chiarito (Sez. 6 - L, Ordinanza n. 16094 del 02/08/2016) che il lavoratore pubblico ha diritto ad un compenso per prestazioni aggiuntive purché i compiti, espletati in concreto, integrino una mansione ulteriore rispetto a quella che il datore di lavoro può esigere in forza dell'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, tale risultando quella che esuli dal profilo professionale salvo che, in presenza di un inquadramento che comporti una pluralità di compiti nell'ambito del normale orario, il datore di lavoro non abbia esercitato il proprio potere di determinare l'oggetto del contratto assegnando prevalenza all'uno o all'altro compito riconducibile alla qualifica di assunzione (Cass. Lav., 15 febbraio 2021, n. 3816)
Le "mansioni aggiuntive" ma compatibili con la qualifica di appartenenza non possono essere retribuite. I principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in relazione allo svolgimento di eventuali mansioni aggiuntive (Cass., n. 3816 del 2021, n. 28150 del 2018, n. 16094 del 2016, n. 12358 del 2014), secondo cui in tema di impiego pubblico contrattualizzato, il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, comma 5, non si applica nell'ipotesi in cui al dipendente siano attribuite mansioni aggiuntive ma compatibili con la qualifica di appartenenza, dovendosi escludere che al lavoratore possa, in mancanza di disposizioni legislative o contrattuali in tal senso, essere riconosciuto un doppio salario, per la duplicità di mansioni conglobate in un'unica prestazione lavorativa, ponendosi eventualmente soltanto un problema di adeguatezza e proporzionalità della retribuzione in relazione alla qualità e quantità della prestazione lavorativa complessivamente svolta (Cass. Lavoro, ordinanza, 27 maggio 2022, n. 17331)
Demansionamento
Sottrazione delle mansioni nel pubblico impiego: la Cassazione distingue il demansionamento dalla privazione delle funzioni. In materia di pubblico impiego privatizzato, ove si sia concretizzato, con la destinazione del dipendente ad altre mansioni, il sostanziale svuotamento dell'attività lavorativa, la vicenda esula dalle problematiche attinenti alla verifica dell'equivalenza formale delle mansioni ex art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, configurandosi non un demansionamento, ma la diversa e più grave figura della sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell'ambito del pubblico impiego (Cass. Lavoro, 8 aprile 2022, n. 11499)
Mobbing
Onere della prova. In tema di mobbing, se responsabile degli atti persecutori è esclusivamente un dipendente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, è configurabile un'ipotesi di responsabilità extracontrattuale ai sensi dell'art. 2043 c.c., in quanto l'autore dei comportamenti illeciti è soggetto terzo rispetto al rapporto di lavoro: ne consegue l'applicazione dello statuto dell'illecito aquiliano, in particolare con riferimento alla ripartizione dell'onere della prova e al regime della prescrizione (Cass. Lav.,13 novembre 2024, n. 29310)
Errore nel pagamento della retribuzioni: il datore di lavoro ha diritto di ripetere l'indebito al netto delle ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente. La Corte di Cassazione (Sez. L, Sentenza n. 1464 del 02/02/2012) ha affermato che, nel rapporto di lavoro subordinato, il datore di lavoro versa al lavoratore la retribuzione al netto delle ritenute fiscali e, quando corrisponde per errore una retribuzione maggiore del dovuto, opera ritenute fiscali erronee per eccesso. Ne consegue che, in tale evenienza, il datore di lavoro, salvi i rapporti col fisco, può ripetere l'indebito nei confronti del lavoratore nei limiti di quanto effettivamente percepito da quest'ultimo, restando esclusa la possibilità di ripetere importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente. Nel medesimo senso, Sez. L, Sentenza n. 19735 del 25/07/2018 (Rv. 650039 - 01), secondo la quale, in caso di riforma, totale o parziale, della sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento di somme in favore del lavoratore, il datore di lavoro ha diritto a ripetere quanto il lavoratore abbia effettivamente percepito e non può pertanto pretendere la restituzione di importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente, atteso che il caso del venir meno con effetto "ex tunc" dell'obbligo fiscale a seguito della riforma della sentenza da cui è sorto ricade nel raggio di applicazione del Decreto del Presidente della Repubblica n., n. 602 del 1973, articolo 38, comma 1, secondo cui il diritto al rimborso fiscale nei confronti dell'amministrazione finanziaria spetta in via principale a colui che ha eseguito il versamento non solo nelle ipotesi di errore materiale e duplicazione, ma anche in quelle di inesistenza totale o parziale dell'obbligo (Cass. Civ., sez. Lav. 23 gennaio 2023, n. 1963)
Ritardato pagamento di somme di natura risarcitoria a dipendenti pubblici: interessi e rivalutazione vanno calcolati sugli importi dovuti al netto delle ritenute di legge. In ipotesi di ritardato pagamento di somme di natura risarcitoria ai dipendenti pubblici, gli interessi legali e la rivalutazione monetaria vanno calcolati, a prescindere dalla loro cumulabilità, sugli importi dovuti al netto delle ritenute di legge (Riferimenti normativi: Decr. Minist. Bilancio e programmazione economica 10/09/1998 num. 352 art. 3 com. 2, Cod. Proc. Civ. art. 429 CORTE COST. Massime precedenti Vedi: N. 13624 del 2020 Rv. 658188 - 02, N. 27521 del 2013 Rv. 629181 - 01 Massime precedenti Vedi Sezioni Unite: N. 14429 del 2017 Rv. 644564 - 01) (Corte Cass, 4 marzo 2024, n. 5744)
Compensazione impropria. In tema di pubblico impiego privatizzato, la P.A. datrice di lavoro, che opera ritenute sulla retribuzione del proprio dipendente al fine di recuperare le somme allo stesso corrisposte in esecuzione di sentenza poi cassata, può operare una compensazione c.d. impropria, senza essere tenuta ad applicare le disposizioni di cui agli artt. 2 del d.P.R. n. 80 del 1950 e 545 c.p.c., che, invece, disciplinano la materia se il prelievo è eseguito, in compensazione cd. impropria, dall'INPS, dietro incarico della P.A., sui ratei di pensione corrisposti ai dipendenti in quiescenza (Corte Cassazione, 6 gennaio 2025, n. 141)
Progressioni verticali e concorsi pubblici. Sono legittimi gli sfasamenti temporali tra le progressioni verticali ed i concorsi pubblici se motivati dalla maggiore complessità dei secondi. A fronte di una situazione di fatto in cui il concorso pubblico potrebbe comportare tempi ben più lunghi, in ragione del numero enorme di candidati, la P.A., per l'evidente esigenza di non tardare nel riempimento dei ruoli di destinazione, parimenti rispondente al criterio di buon andamento, può dare corso a due procedure distinte, destinate a concludersi in tempi diversi. L'interesse primariamente tutelato dalla disciplina sul concorso pubblico è quello al reperimento anche all'esterno del personale, rispetto al quale è recessivo l'interesse dei neoassunti alla parità di carriera, allorquando le circostanze impongano, sempre per il buon andamento della P.A., tempistiche diverse (Cass., Lav., 11 ottobre 2022, n. 29719).
Progressioni verticali: l'esperienza presso l'ente di appartenenza deve essere parificata a quella presso altro ente se riferita allo stesso settore professionale. La distinzione operata nell’avviso non appare scevra da irragionevolezza manifesta, sotto un duplice, concorrente profilo: a) da un lato, parifica l’esperienza prestata nel medesimo settore professionale, ma presso altra p.a., a quello prestato in diverso settore professionale (così, ad esempio, il servizio prestato dal candidato come vigile urbano in altro Comune avrà lo stesso trattamento di chi abbia svolto funzioni da impiegato di Roma Capitale in attività completamente eterogenea); b) da un altro, l’esperienza di chi abbia svolto funzioni nello stesso settore professionale (ad esempio, il vigile presso il Comune di Milano) viene immotivatamente discriminata rispetto a chi abbia svolto quelle funzioni presso il Comune di Roma, senza che emergano elementi idonei a sostenere che l’attività professionale nel settore della vigilanza nella città di Roma abbia delle specificità tali (in termini di funzioni operative) da giustificare un trattamento di maggiore favore, vieppiù rilevandosi che la procedura di progressione, per definizione, costituisce un procedimento che si applica solo ed esclusivamente a dipendenti della stessa Amministrazione, a qualsivoglia titolo assunti o transitati (concorso, esterno o interno, mobilità, ecc.), e che l’individuazione dei criteri, pure se prescinde dal possesso del titolo di studio normalmente necessario per l’accesso, non può contemporaneamente prescindere dalla valutazione delle professionalità acquisite, pena la violazione del canone del buon andamento ex art.97 Cost.. (TAR Lazio, 24 febbraio 2205, n. 4036)
Progressioni verticali: ammissibile la forma del colloquio per la valutazione delle competenze acquisite nel contesto lavorativo. Sul punto, è sufficiente premettere che, secondo la consolidata interpretazione della giurisprudenza, tanto delle Sezioni Unite della Cassazione che del giudice amministrativo, le controversie sulle progressioni verticali (di passaggio di area) rientrano nella giurisdizione del g.a., ai sensi dell’art.63, co.4 D.Lgs.n.165/2001, proprio in ragione della rilevanza concorsuale della selezione, che consente il passaggio a profilo professionale diverso e superiore (cfr., quam multis, Cass. SU., n.11.4.2018, n.8985; Tar Roma, 11.7.2020, n.7399; Tar Campobasso, 30.1.2015, n.20: “Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto una selezione interna per titoli e colloquio, indetta dall'Amministrazione sanitaria locale, per il passaggio di parasanitari dipendenti dalla categoria di ostetrica - collaboratore (D6) a quella di ostetrica - coordinatore (DS), trattandosi di una 'progressione verticale' e rientrando, quindi nella materia dei concorsi pubblici”. Posta la natura latu sensu concorsuale della progressione verticale, sia pure con la specificità che la caratterizza rispetto al modus procedendi del concorso esterno o interno tradizionale, si ritiene che la previsione del colloquio non sia irragionevole, rientrando appieno nell’alveo della discrezionalità amministrativa della p.a. la previsione di un meccanismo che assegna una quota (peraltro non maggioritaria) del punteggio all’accertamento delle competenze maturate dal candidato allo scopo di verificare l’idoneità prognostica dello stesso a transitare nel profilo professionale superiore. Il colloquio (cd. assessment), del resto, rappresenta comunemente uno strumento idoneo a verificare la attitudine del candidato a transitare nel diverso profilo richiesto, implicando la verifica delle competenze acquisite “sul campo” e la maggiore o minore rispondenza al profilo professionale superiore rispetto a quello nel quale l’esperienza è maturata (TAR Lazio, 24 febbraio 2205, n. 4036)
Ferie non autorizzate. E' consolidato il principio di diritto per cui la fruizione delle ferie, a prescindere dalla loro maturazione, è subordinata all’autorizzazione del datore, nella prospettiva del contemperamento con le esigenze di servizio (Corte Cass., 20 maggio 2024, n. 14006)
Monetizzazione delle ferie non godute. L’articolo 7 della direttiva 2003/88 e l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta devono essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa nazionale che, per ragioni attinenti al contenimento della spesa pubblica ed alle esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico, prevede il divieto di versare al lavoratore un’indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali retribuite, maturati sia nell’ultimo anno di impiego, sia negli anni precedenti e non goduti alla data della cessazione del rapporto di lavoro, qualora egli ponga fine volontariamente a tale rapporto di lavoro e non abbia dimostrato di non aver goduto delle ferie nel corso di detto rapporto di lavoro per ragioni indipendenti dalla sua volontà (Corte di Giustizia, 18 gennaio 2024)
L'indennità per ferie non godute ha carattere retributivo ed è soggetta a contribuzione previdenziale. Al riguardo, si rileva come sia stato affermato (Cass., Sez. L, n. 11262 del 10 maggio 2010; Cass., Sez. L, n. 6607 del 2004) che l'indennità sostitutiva di ferie non godute è assoggettabile a contribuzione previdenziale a norma dell'art. 12 della legge n. 153 del 1969, sia perché, essendo in rapporto di corrispettività con le prestazioni lavorative effettuate nel periodo di tempo che avrebbe dovuto essere dedicato al riposo, ha carattere retributivo e gode della garanzia prestata dall'art. 2126 c.c. a favore delle prestazioni effettuate con violazione di norme poste a tutela del lavoratore sia perché un eventuale suo concorrente profilo risarcitorio non ne impedisce la riconducibilità all'ampia nozione di retribuzione imponibile delineata dal citato art. 12, costituendo essa, comunque, un'attribuzione patrimoniale riconosciuta a favore del lavoratore in dipendenza del rapporto di lavoro e non essendo ricompresa nella elencazione tassativa delle erogazioni escluse dalla contribuzione. In particolare, è stato ritenuto (così Cass., Sez. L, n. 26160 del 17 novembre 2020; Cass., Sez. L, n. 13473 del 29 maggio 2018; Cass., Sez. L, n. 20836 dell'11 settembre 2013; Cass., n. 11462 del 9 luglio 2012),
La natura mista dell'indennità per ferie non godute: risarcitoria e ritributiva. In relazione al carattere irrinunciabile del diritto alle ferie, garantito dall'art. 36 Cost. - ed ulteriormente sancito dall'art. 7 della direttiva 2003/88/CE, ove in concreto le ferie non siano effettivamente fruite, anche senza responsabilità del datore di lavoro, spetta al lavoratore l'indennità sostitutiva che ha, per un verso, carattere risarcitorio, in quanto idonea a compensare il danno costituito dalla perdita di un bene (il riposo con recupero delle energie psicofisiche, la possibilità di meglio dedicarsi a relazioni familiari e sociali, l'opportunità di svolgere attività ricreative e simili) al cui soddisfacimento l'istituto delle ferie è destinato e, per altro verso, costituisce erogazione di indubbia natura retributiva, perché non solo è connessa al sinallagma caratterizzante il rapporto di lavoro, quale rapporto a prestazioni corrispettive, ma più specificamente rappresenta il corrispettivo dell'attività lavorativa resa in periodo che, pur essendo di per sé retribuito, avrebbe, invece, dovuto essere non lavorato perché destinato al godimento delle ferie annuali, restando indifferente l'eventuale responsabilità del datore di lavoro per il mancato godimento delle stesse. Alla natura retributiva e alla sottoposizione a contribuzione previdenziale ex art. 12 della legge n. 153 del 1969 dell'indennità sostitutiva per le ferie non godute consegue che la stessa va calcolata ai fini della determinazione dell'indennità di buonuscita. In quest'ottica, non assume valore la distinzione, prospettata da parte ricorrente, fra TFS e TFR, per la determinazione del quale la giurisprudenza ha ormai ammesso da tempo la rilevanza dell'indennità sostitutiva per ferie non godute (Cass., Sez. L, n. 20836 dell'11 settembre 2013). Infatti, ancorché l'indennità di buonuscita non possa essere considerata salario differito, diversamente dal TFR, essa è pur sempre calcolata, ai sensi dell'art. 38 del d.P.R. n. 1032 del 1973, considerando la retribuzione annua lorda e "gli assegni e le indennità previsti dalla legge come utili ai fini del trattamento previdenziale", fra cui figura l'indennità sostitutiva per ferie non godute (Corte Cassazione, sez. Lav, 4 aprile 2024, n. 9009)
Valutazione performance dipendenti PA. Il controllo eseguito sulle premialità riconosciute ai dipendenti delle PA centrali nel triennio 2020-2022 evidenzia la diffusa indicazione di obiettivi particolarmente bassi e autoreferenziali, oltre alla scelta di indicatori di performance poco sfidanti. E’ quanto rileva la Corte dei conti nell’analisi, approvata con Delibera n. 62/2024/G, che la Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato ha condotto sull’effettività del Sistema di misurazione e valutazione della performance dei dipendenti pubblici, previsto dal decreto legislativo n. 150/2009. I risultati emersi - specifica la magistratura contabile - evidenziano l’appiattimento verso l’alto delle valutazioni del personale, la conseguente attribuzione di premialità senza adeguati presupposti meritocratici e l’insufficiente efficacia del sistema di misurazione e valutazione, inidoneo a determinare in maniera uniforme e pienamente adeguata la qualità delle prestazioni dei dipendenti pubblici. Se la logica istitutiva degli Organismi Indipendenti di Valutazione è legata all’unificazione dei compiti prima svolti dai servizi o dagli uffici di controllo interno delle PA e all’uniformazione delle modalità di verifica delle prestazioni, l’assenza nell’attuale sistema di parametri realmente omogenei - conclude la Corte - è un rischio di allontanamento dagli scopi ispiratori della norma (Corte dei Conti, sez. centrale controllo, 13 maggio 2024, n. 62)
Ufficio procedimenti disciplinari. L'unico limite che la legge pone all'autonomia degli ordinamenti dei singoli Enti, è costituito dalla garanzia del carattere pluripersonale dell'Ufficio, in quanto la "monocraticità", come affermato da questa Corte, eluderebbe le ragioni stesse di efficienza amministrativa e di imparzialità che hanno suggerito la composizione collegiale (Cassazione civile sez. lav., 16/04/2018, n.9314). In senso difforme (prima della riforma Brunetta): “Non vi è alcuna norma che imponga la struttura collegiale dell'U.c.p.d., come recentemente precisato da questa Corte (Cass. n. 12245/2015), con principio cui si intende dare continuità nella presente sede” (Cass. Lav., 13 giugno 20216, n. 12019). La Corte (Cass. 16706/2018, 11160/2018, 5317/2017, 22487/2016, 17215/2016) ha già interpretato la disposizione che qui viene in rilievo ed ha affermato che il legislatore, nel richiedere la previa individuazione dell'UPD, non ha imposto modifiche strutturali finalizzate alla "istituzione" dell'ufficio stesso, né ha richiesto che la individuazione debba avvenire con apposito provvedimento e mediante formule sacramentali. Nelle sentenze innanzi richiamate è stato osservato che il legislatore non ha ritenuto di dovere imporre ulteriori vincoli alle amministrazioni ed anzi, attraverso il richiamo all'ordinamento proprio di ciascuna, ha inteso sottolineare la necessità di procedere alla individuazione dell'UPD, coniugando il rispetto della finalità sopra indicata con le esigenze organizzative di ciascun ente ed è stato anche evidenziato che il legislatore non ha dettato prescrizioni in merito alla composizione collegiale o personale dell' UPD né ha imposto requisiti particolari per i soggetti chiamati a comporre l'ufficio medesimo (Cass. 16706/2018, 5317/2017, 22487/2016) (Cass. Lav. 29 luglio 2019, n. 20417). La disposizione di legge (art. 55 bis, comma 2), in base alla sua ratio, come sopra riportata, non richiede la costituzione di un apposito ufficio, che si occupi esclusivamente dei procedimenti disciplinari, né l’individuazione esplicita di una determinata figura quale responsabile dell’ufficio o di altre figure quali componenti di un obbligo (recte organo) necessariamente collegiale (Cass.Lav. 10 gennaio 2024, n. 1016). In tema di sanzioni disciplinari nel pubblico impiego, il responsabile della struttura ed il soggetto competente ad irrogare la sanzione - quest'ultimo da individuarsi a cura di ciascuna amministrazione e secondo il proprio ordinamento - devono essere distinti, ex art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 "ratione temporis" vigente, al fine di garantire che, in relazione alle sanzioni di maggiore gravità, tutte le fasi del procedimento vengano condotte da un soggetto terzo, in condizioni di serenità ed imparzialità di giudizio e con il sufficiente distacco dalla struttura lavorativa alla quale è addetto il dipendente; la necessità di tale distinzione viene meno solo ove si realizzi la duplice condizione che l'infrazione rilevata sia fra quelle di minore gravità ed il responsabile della struttura rivesta la qualifica di dirigente (Cassazione civ., lav., 27 dicembre 2021, n. 41568)
Composizione dell’UDP: Alcuna norma prevede che dell'Ufficio provvedimenti disciplinari debbano far parte dipendenti con qualifica almeno pari a quella degli incolpati, né esiste un principio secondo il quale soltanto siffatta composizione sarebbe idonea ad attuare il principio di imparzialità dell'amministrazione. A vero dire, nel regime pubblicistico del rapporto di servizio dei pubblici dipendenti, l'art. 107 del d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3, prevedeva che nel caso in cui il capo del personale non ritenesse il caso sufficientemente istruito attraverso le indagini preliminari e le giustificazioni dell'impiegato, doveva nominare per le ulteriori indagini un funzionario istruttore, scegliendolo tra gli impiegati aventi qualifica superiore a quella dell'impiegato, ma siffatta prescrizione né il legislatore, né, per quanto (non) dedotto dai ricorrenti, le parti sociali, né la stessa amministrazione nell'approvare i "criteri disciplinari", hanno ritenuto di dover ripetere in ordine alla composizione dell'Ufficio per i provvedimenti disciplinari. La scelta operata dal legislatore con il d.p.r. del 1957 può ritenersi ispirata (a vantaggio precipuo dell'amministrazione) del timore che un funzionario istruttore di grado meno elevato dell'incolpato potesse avere verso lo stesso una qualche forma di soggezione psicologica, o essere dotato di minore esperienza tecnica (nel caso in cui il funzionario di grado superiore, ma di un diverso settore dell'amministrazione, fosse sprovvisto della competenza tecnica specifica, era prevista la nomina, da parte del capo del personale, in funzione di ausiliario, di un consulente tecnico della stessa carriera dell'incolpato, ma di qualifica o di anzianità superiore). Tuttavia, la circostanza che, malgrado tale precedente legislativo, il legislatore (art. 59 d.lgs. 23 dicembre 1993. n. 29, come sostituito dall'art. 27 del d.Igs. 23 dicembre 1993, n. 546, disciplina ora trasfusa nell'art. 55 del d.lgs.30 marzo 2001, n. 165), con la privatizzazione del rapporto di servizio, abbia affidato a ciascuna amministrazione, secondo il proprio ordinamento, il potere di individuare l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari e che la stessa amministrazione in sede regolamentare, non abbia ritenuto (per quanto si desume dalle deduzioni dei ricorrenti) di prevedere il requisito della maggiore anzianità o qualifica per i componenti dell'Ufficio procedimenti disciplinari ben può essere giustificata dalle maggiori garanzie che, comunque, sono assicurate da un organo collegiale precostituito, rispetto al funzionario istruttore del precedente ordinamento (nominato per il singolo procedimento disciplinare) (Cassazione Lav., 03/06/2004, n.10600)
Terzietà dell’UDP: Secondo l'orientamento già espresso dalla Corte in materia di composizione degli UPD, il principio di terzietà dell'ufficio dei procedimenti disciplinari ne postula la distinzione sul piano organizzativo con la struttura nella quale opera il dipendente, e non va confuso con la imparzialità dell'organo giudicante, che solo un soggetto terzo, rispetto al lavoratore ed alla P.A., potrebbe assicurare, laddove il giudizio disciplinare, sebbene connotato da plurime garanzie poste a difesa del dipendente, è comunque condotto dal datore di lavoro, ossia da una delle parti del rapporto. Ne consegue che qualora il suddetto ufficio abbia composizione collegiale, e sia distinto dalla struttura nella quale opera il dipendente sottoposto a procedimento, la terzietà dell'organo non viene meno solo perchè sia composto anche dal soggetto che ha effettuato la segnalazione disciplinare (Cass. 24 gennaio 2017, n. 1753; Cass. 28/06/2019, n. 17582) (Cass. sez. Lavoro 1° giugno 2021, n. 15239). È stato sottolineato al riguardo che l'interpretazione dell'art. 55-bis, comma 4, non può essere ispirata ad un eccessivo formalismo ma deve essere coerente con la sua ratio, che è quella di tutelare il diritto di difesa dei dipendenti pubblici, senza alcuna eccezione, anche per i casi più gravi di condotte penalmente rilevanti (come quella di cui si tratta), tenendo, però, in considerazione i principi di cui agli artt. 54, 97 e 98 Cost. Si è conseguentemente ritenuto che ai fini della legittimità della sanzione rileva che sia stato garantito il principio di terzietà, sul quale riposa la necessaria previa individuazione dell'ufficio dei procedimenti, il che " postula solo la distinzione sul piano organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente" (Cass. 2 marzo 2017 n. 5317).
Per i procedimenti disciplinari instaurati in relazione ad illeciti commessi dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 75 del 2017 (cd riforma Madia), l'erronea individuazione dell'organo interno alla P.A. titolare del potere disciplinare, nonché il mancato rispetto delle regole di costituzione e funzionamento dello stesso, incidono sulla legittimità della sanzione, espulsiva o conservativa, solo quando emerga che l'ufficio non sia terzo e specializzato, con concreta compromissione delle garanzie difensive dell'incolpato, in quanto l'introduzione dei commi 9 bis e 9 ter nell' art. 55 bis del d.lgs. n. 165 del 2001 ha ristretto l'ambito di applicazione della nullità prevista dal primo comma dell'art. 55 del medesimo decreto, sicché il carattere imperativo della disciplina in esame non è più da sola idonea a determinare, ex art. 1418 c.c. , la nullità della sanzione (Cassazione civile , sez. lav. , 15/11/2022 , n. 33619). In tema di sanzioni disciplinari nel pubblico impiego, il responsabile della struttura ed il soggetto competente ad irrogare la sanzione, quest'ultimo da individuarsi a cura di ciascuna amministrazione e secondo il proprio ordinamento, devono essere distinti, ex art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 ratione temporis vigente, al fine di garantire che, in relazione alle sanzioni di maggiore gravità, tutte le fasi del procedimento vengano condotte da un soggetto terzo, in condizioni di serenità ed imparzialità di giudizio e con il sufficiente distacco dalla struttura lavorativa alla quale è addetto il dipendente; la necessità di tale distinzione viene meno solo ove si realizzi la duplice condizione che l'infrazione rilevata sia fra quelle di minore gravità ed il responsabile della struttura rivesta la qualifica di dirigente (Cassazione civile , sez. lav. , 27/12/2021 , n. 41568). In tema di pubblico impiego contrattualizzato, il principio di terzietà dell'ufficio dei procedimenti disciplinari ne postula la distinzione sul piano organizzativo rispetto alla struttura nella quale opera il dipendente, e non va confuso con quello di imparzialità dell'organo giudicante, che solo un soggetto terzo può assicurare, laddove il giudizio disciplinare, sebbene connotato da plurime garanzie per il dipendente, è comunque condotto dal datore, parte del rapporto. Ne consegue che qualora l'U.P.D. abbia composizione collegiale, e sia distinto dalla struttura nella quale opera il dipendente sottoposto a procedimento, la terzietà dell'organo non viene meno per il sol fatto che sia composto anche dal soggetto che ha effettuato la segnalazione disciplinare, nella specie dal responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza. (In applicazione di tale principio, la S.C. in fattispecie anteriore alla modifica dell'art. 1, comma 7, della l. n. 190 del 2012 , ad opera dell' art. 41 del d.lgs. n. 97 del 2016 , ha ritenuto correttamente costituito l'ufficio disciplinare di cui era membro il responsabile della prevenzione della corruzione) (Cassazione civile , sez. lav. , 01/06/2021 , n. 15239). Va, pertanto, ribadito che, ai fini della legittimità della sanzione, rileva che sia stato garantito il principio di terzietà, sul quale riposa la necessaria previa individuazione dell'ufficio dei procedimenti, il che «postula solo la distinzione sul piano organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente» (Cass. n. 14810/2020, Cass. n. 25379/2019, Cass. n. 21202/2019, Cass. n. 25379/2019, Cass. n. 18564/2019, Cass. 17582/2019, Cass. 17537/2019, Cass. 3467/2019, Cass. n. 5317/2017) (Cass. Lav., 20 maggio 2021, n. 13912). In tema di pubblico impiego contrattualizzato, la partecipazione all'attività e alla decisione conclusiva dell'ufficio per i procedimenti disciplinari di un componente che, in base alla vigente normativa, si sarebbe dovuto astenere non rende nullo il provvedimento finale, ove siano stati garantiti la distinzione sul piano organizzativo di tale ufficio rispetto alla struttura nella quale opera il dipendente e il diritto di difesa di quest'ultimo (Corte Cass, Lav. 4 marzo 2024, n. 5733)
Regole sulla competenza e regole sul funzionamento dell’UDP. Le regole legali sulla competenza vanno mantenute distinte da quelle regolamentari che disciplinano la costituzione e il funzionamento dell'organo collegiale, secondo l'ordinamento interno di ciascuna Pubblica Amministrazione, perchè il D.Lgs. n. 165 del 2001, "non attribuisce natura imperativa "riflessa" al complesso delle regole procedimentali interne che regolano la costituzione e il funzionamento dell'UPD" (Cass. n. 25379/2017 e Cass. n. 3467/2019). L'interpretazione dell'art. 55 bis, comma 4, del richiamato decreto deve, infatti, essere coerente con la sua ratio, che è quella di tutelare il diritto di difesa dei dipendenti pubblici, sicchè ai fini della legittimità della sanzione rileva unicamente che sia stato garantito il principio di terzietà, sul quale riposa la necessaria previa individuazione dell'ufficio dei procedimenti, il che " postula solo la distinzione sul piano organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente " (Cass. n. 5317/2017). Si deve, pertanto, escludere che, qualora il procedimento sia stato condotto dall'ufficio individuato o istituito dall'ente come competente ai fini dell'esercizio dell'azione disciplinare, il mancato rispetto delle disposizioni regolamentari che ne disciplinano la composizione ed il funzionamento debba per ciò solo indurre quale conseguenza la nullità della sanzione, perchè la violazione può rilevare solo se ed in quanto ne sia risultato compromesso il diritto di difesa del dipendente incolpato, evenienza, questa, neppure adombrata nella fattispecie (Cass. 28 giugno 2019, n. 17582).
Composizione collegiale dell’UDP. Con specifico riferimento all'attività dell'UPD, se a composizione collegiale, si è sottolineato, sviluppando il principio sopra richiamato, che devono essere collegialmente compiute "solo le attività valutative e deliberative vere e proprie (rispetto alle quali sussiste l'esigenza che tutti i suoi componenti offrano il proprio contributo ai fini di una corretta formazione della volontà collegiale) e non anche quelle preparatorie, istruttorie o strumentali, verificabili a posteriori dall'intero consesso" (Cass. n. 8245/2016 richiamata da Cass. 14200/2018). Anche sotto questo profilo, pertanto, la doglianza è infondata, perchè la contestazione, con la quale si dà avvio al procedimento disciplinare, non ha natura decisoria nè è espressione di un potere discrezionale, in quanto nell'ambito dell'impiego pubblico contrattualizzato, a differenza dell'impiego privato, l'iniziativa disciplinare è doverosa (Cass. n. 8722/2017, richiamata fra le più recenti da Cass. n. 20880/2018), tanto che la sua omissione è fonte di responsabilità per il soggetto tenuto ad attivare il procedimento. Cass. 28 giugno 2019, n. 17582).
Collegio perfetto. In tema di pubblico impiego contrattualizzato, l'ufficio procedimenti disciplinari opera con il plenum dei suoi componenti nelle fasi in cui l'organo è chiamato a compiere valutazioni tecnico-discrezionali o ad esercitare prerogative decisorie, rispetto alle quali si configura l'esigenza che tutti i suoi componenti offrano il loro contributo ai fini di una corretta formazione della volontà collegiale, esigenza che, invece, non ricorre rispetto agli atti preparatori, istruttori o strumentali, verificabili a posteriori dall'intero consesso, restando irrilevante, ai fini della validità della sanzione irrogata, l'eventuale previsione regolamentare che impone la collegialità per tutte le fasi del procedimento disciplinare. (In applicazione del principio, la S.C. ha respinto il ricorso del lavoratore in una fattispecie in cui la contestazione disciplinare era stata sottoscritta dal solo presidente dell'UPD) (Cassazione civile, sez. lav., 27/06/2019, n. 17357). Tranne che in caso di organi giurisdizionali un collegio deve intendersi come perfetto solo quando la legge, esplicitamente o implicitamente, lo disponga; in un collegio perfetto la presenza di tutti i suoi componenti è necessaria soltanto per le attività decisorie e non anche per quelle preparatorie, istruttorie o strumentali verificabili a posteriori dall'intero consesso; in nessun caso un collegio può operare in composizione monopersonale (Cassazione civile sez. lav., 09/01/2019, n.271)
Formazione della volontà e manifestazione della decisione. La Corte (Cass. n. 3467/2019) ha osservato che in relazione all'attività degli organi collegiali la formazione della volontà resta distinta dalla manifestazione, sicchè mentre la prima si deve formare all'interno dell'organo collegiale secondo le regole che ne presiedono il funzionamento, all'esterno l'organo agisce in persona del soggetto che lo rappresenta, sicchè gli atti ben possono essere sottoscritti solo da quest'ultimo, non avendo giuridico fondamento la tesi secondo cui dalla natura perfetta del collegio deriverebbe la necessità che tutte le persone fisiche che lo compongono assumano anche all'esterno la paternità dell'atto, sottoscrivendolo. Si è, poi, aggiunto che, secondo la giurisprudenza amministrativa, caratterizza il collegio perfetto la circostanza che lo stesso deve operare con il plenum dei suoi componenti nelle fasi in cui l'organo è chiamato a compiere valutazioni tecnico - discrezionali o ad esercitare prerogative decisorie, rispetto alle quali si configura l'esigenza che tutti i suoi componenti offrano il loro contributo ai fini di una corretta formazione della volontà collegiale, esigenza che, invece, non ricorre rispetto agli atti istruttori (C.d.S. n. 5187/2015, C.d.S. n. 40/2015 (Cass. Lav. 28 giugno 2019, n. 17582)
Responsabile prevenzione corruzione e UDP: La nuova disposizione certamente postula una alterità dei due uffici ma non indica espressamente una loro incompatibilità, anzi, nel rimarcare la necessaria differenza che esiste tra ufficio del Responsabile della prevenzione della corruzione e Ufficio dei procedimenti disciplinari, non sembra escludere la possibilità che il primo sia anche componente dell'UPD (Cassazione civile sez. lav., 01/06/2021, n.15239)
Verbali dell’UPD. Va, infatti, osservato che anche per gli atti amministrativi la catalogazione in ordine cronologico, tramite apposizione di un numero progressivo, cosiddetto di protocollo, riportato in un registro, costituisce elemento non irrilevante di buon andamento dell'Amministrazione per l'ordinata conservazione e l'agevole reperibilità nel tempo degli atti stessi; ma non può considerarsi requisito di validità del provvedimento, i cui elementi costitutivi - motivazione, dispositivo, data di emanazione - sono riportati nell'atto stesso ed attestati dalla firma dell'autorità competente (Cass. n. 14810/2020; Cons. Stato 6 agosto 2013, n. 4113). Va anche osservato che, nella specie, non vengono in considerazione atti amministrativi pubblici, bensì atti posti in essere dalla P.A. con i poteri propri del datore di lavoro privato e, come tali, soggetti alla disciplina privatistica, visto che i procedimenti disciplinari di cui al d.lgs. n. 165 del 2001 non costituiscono procedimenti amministrativi (vedi, per tutte: Cass. 18 ottobre 2016, n. 21032). Ne consegue che, a maggior ragione, per tali procedimenti l'utilizzazione della protocollazione degli atti può essere utile (Cass. 19672/2019, Cass. 14810/2019: Cass. 2160/2019), ma si tratta di una mera scelta di modalità organizzative della P.A., la cui mancata adozione non può avere alcuna incidenza sulla validità del procedimento disciplinare e sulla sussistenza della Causa dell'atto di recesso datoriale, la cui legittimità è compito del giudice del merito valutare, come accaduto nella specie (Cass. 14810/2019, Cass. 19672/2019, Cass. 11751/2016) (Cass. Lav. 20/05/2021, n. 13912)
Segnalazione della questione disciplinare. In materia di procedimento disciplinare nei confronti dei dipendenti delle P.A., gli artt. 55 d.lgs. n. 165 del 2001, ratione temporis applicabile, e 24, c.c.n.l. comparto Regioni ed Autonomie locali 2002-2005, non individuano nella segnalazione del responsabile della struttura un requisito di validità del procedimento, e non vietano all'Ufficio per i procedimenti disciplinari di avviare l'iniziativa disciplinare allorquando la notizia sia stata acquisita in modo diverso dalla segnalazione in questione; infatti, il legislatore ha solo voluto rimarcare un compito istituzionale che fa capo al dirigente il quale, in ragione della posizione organizzativa e funzionale ricoperta, è di norma il soggetto che può acquisire la conoscenza dei fatti di potenziale rilievo disciplinare, fermo restando che il predetto ufficio deve attivare il procedimento anche qualora altri procedano alla segnalazione e può acquisire la notizia autonomamente dal responsabile della struttura. (Cassazione civile, sez. lav., 05/10/2017, n. 23268)
Obbligatorietà del procedimento disciplinare: Nel pubblico impiego l'esercizio dell'azione disciplinare è connotato da obbligatorietà, in quanto rispondente a principi costituzionali di buon andamento della P.A., di imparzialità e di legalità - legittimità dell'azione amministrativa ex art. 97 Cost., (cfr. Cass. sent. n. 17307 del 2016 e Cass. n. 18849 del 2017 sulla permanenza dell'interesse della pubblica amministrazione a perseguire un illecito disciplinare anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro). Tuttavia, il mancato esercizio di tale azione non rende legittimo l'eventuale comportamento inadempiente del lavoratore, ben potendo invece rilevare ad altri fini (ad esempio, in relazione all'eventuale configurabilità di responsabilità omissive facenti capo al dirigente) (Cassazione civile sez. lav., 29/10/2018, n.27387). Nell'ambito dell'impiego pubblico contrattualizzato, a differenza dell'impiego privato, l'iniziativa disciplinare è doverosa (Cass. n. 8722/2017, richiamata fra le più recenti da Cass. n. 20880/2018), tanto che la sua omissione è fonte di responsabilità per il soggetto tenuto ad attivare il procedimento (Cass. 28 giugno 2019, n. 17582).
Competenze dell’UPD. In tema di sanzioni disciplinari nel pubblico impiego privatizzato, l'attribuzione della competenza al dirigente della struttura cui appartiene il dipendente o all'Ufficio per i procedimenti disciplinari, ai sensi dell' art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, si definisce esclusivamente sulla base delle sanzioni edittali massime stabilite per i fatti contestati, e non sulla base della misura che la P.A. possa prevedere di irrogare; la misura applicata in violazione delle predette regole di competenza interna è invalida qualora la sanzione sia irrogata dal dirigente e responsabile della struttura (nella specie, dirigente scolastico) in luogo dell'U.P.D., per le minori garanzie di terzietà offerte al lavoratore, stante l'identificazione fra la figura di chi è preposto al dipendente e di chi lo giudica in sede amministrativa. (Cassazione civile, sez. lav., 20/11/2019, n. 30226). In tema di sanzioni disciplinari nel pubblico impiego privatizzato, i termini per lo svolgimento del procedimento, così come la distribuzione della competenza tra il responsabile della struttura e l'Ufficio per i procedimenti disciplinari, si definiscono, ai sensi dell' art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, sulla base dei fatti indicati nell'atto di contestazione e delle sanzioni per essi astrattamente stabilite dalla contrattazione collettiva, che si individuano, qualora l'ipotesi rientri tra quelle espressamente enunciate dal c.c.n.l., nella misura massima edittale, ovvero, qualora si tratti di fatti di rilievo disciplinare non rientranti in tali specifiche ipotesi, sulla base della sanzione massima irrogabile (Cassazione civile, sez. lav. , 08/11/2019 , n. 28928).
Competenza all’irrogazione della sanzione. La competenza per l'applicazione delle sanzioni disciplinari "minori" in capo al dirigente dell'ufficio presso cui il lavoratore presta servizio, ai sensi dell'art. 55-bis, comma 1, d.lgs. n. 165/2001, va stabilita sulla base all'organigramma dell'ente di riferimento e può essere legittimamente fissata anche in capo a chi non sia l'immediato superiore gerarchico del dipendente, ma sia comunque un dirigente posto in linea gerarchica rispetto allo stesso. Inoltre, pur in assenza di tale previsione nell'organigramma dell'ente, l'eventuale applicazione della sanzione da parte non del superiore diretto immediatamente preposto all'ufficio presso cui il dipendente presta servizio, ma di altro dirigente ancora superiore ma pur sempre nella medesima linea gerarchica propria del settore di appartenenza, non comporta alcuna nullità della sanzione irrogata, risolvendosi nell'intervento di un dirigente comunque di pertinenza del settore presso cui il servizio è prestato, ma in maggiore posizione di terzietà e quindi con una ancora maggior garanzia per il dipendente. Resta tuttavia in ogni caso salva la necessità che lo spostamento della funzione disciplinare verso soggetti diversi da quello competente e preposto all'ufficio di appartenenza non si traduca in violazione del termine normativamente stabilito (di venti giorni) per la contestazione, da misurarsi pertanto rispetto alla contezza dell'illecito che si abbia nel contesto dell'ufficio, munito di dirigente o preposto competente, di appartenenza (Cassazione civile sez. lav., 31/03/2023, n.9121)
Contenuto della contestazione. In tema di sanzioni disciplinari nel pubblico impiego privatizzato, la contestazione dell'infrazione, per essere valida, deve contenere l'indicazione dei fatti addebitati, mentre non è necessaria quella della sanzione per essi prevista; in ogni caso l'attribuzione della competenza al Dirigente della struttura cui appartiene il dipendente o all'Ufficio per i procedimenti disciplinari, ai sensi dell' art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 , si definisce esclusivamente sulla base delle sanzioni edittali massime stabilite per i fatti contestati, e non sulla base della misura che la P.A. possa prevedere di irrogare, né è ragione di invalidità la circostanza che l'U.P.D, presso cui si è radicato il procedimento nei termini di cui sopra, fruendo dell'intero margine edittale, applichi una sanzione inferiore a quella che ha costituito il discrimine di tale competenza, qualora ciò sia conseguenza della necessaria proporzionalità rispetto ai fatti addebitati (Cassazione civile , sez. lav. , 02/08/2019 , n. 20845).
Attività istruttoria. In tema di procedimento disciplinare nel lavoro pubblico contrattuale, mentre non è ammissibile la delega rispetto ad atti che implicano un'attività valutativa e decisoria, è possibile delegare lo svolgimento di atti meramente istruttori, che siano compiuti su indicazione dell'ufficio delegante e siano sottoposti alla verifica di questo (Cassazione civile, sez. lav., 20/12/2018, n. 33020). Nel pubblico impiego contrattualizzato, il titolare dell'ufficio dei procedimenti disciplinari può delegare a dipendenti esterni allo stesso il compimento di atti istruttori, facendone propri i risultati, purché detti atti non abbiano contenuto valutativo o decisorio ed il soggetto delegato offra garanzia di terzietà ed imparzialità, non essendo gli stessi soggetti ai limiti della delega di funzioni in quanto espressione del potere privatistico del datore di lavoro e non di quello pubblicistico (Cassazione civile, sez. lav., 04/06/2018, n. 14200). Alle medesime conclusioni questa Corte è pervenuta in relazione all'attività dell'UPD, se a composizione collegiale, in ordine alla quale si è sottolineato che devono essere collegialmente compiute "solo le attività valutative e deliberative vere e proprie (rispetto alle quali sussiste l'esigenza che tutti i suoi componenti offrano il propri ccontributo ai fini di una corretta formazione della volontà collegiale) e non anche quelle preparatorie, istruttorie o strumentali, verificabili a posteriori dall'intero consesso" (Cass. 14200/2018, 8245/2016) (Cass. Lav. 20/05/2021, n. 13912).
Termine di conclusione del procedimento e diritto di difesa: In tema di illeciti disciplinari nel pubblico impiego privatizzato, a seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 75 del 2017 (cd. legge Madia) all'art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, il termine per la conclusione del procedimento da parte dell'Ufficio per i procedimenti disciplinari non decorre più dalla conoscenza dell'illecito in capo al responsabile della struttura di appartenenza, ma da quando l'Ufficio predetto abbia effettuato la contestazione di tale illecito, sicché a tal fine i tempi intercorsi prima della comunicazione dell'illecito all'u.p.d. non hanno rilievo, se non quando ne risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente. (Cassazione Civile, sez. lav. 18/04/2023, n. 10284). Anche dopo le modifiche apportate dal d.lg. n. 75/2017 (c.d. legge Madia) all' art. 55-bis d.lg. n. 165/2001 , la violazione del termine (ora di dieci giorni) per la trasmissione degli atti dal responsabile del servizio all'ufficio per i procedimenti disciplinari non comporta la decadenza dall'azione disciplinare né l'invalidità degli atti e della sanzione irrogata, a meno che ne risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente ed il richiamo della norma al principio di tempestività va inteso nel senso che sono certamente rilevanti eventuali violazioni del termine per la trasmissione degli atti, le quali vanno tuttavia anch'esse misurate in ragione della violazione del diritto di difesa, tenendosi conto che il pregiudizio rispetto a quest'ultimo è di regola più probabile quanto più ci si allontani nel tempo dal momento dei fatti. (Cassazione civile, sez. lav ,06/10/2022, n. 29142). In ordine al testo dell'articolo 55 bis D.Lgs nr. 165/2001 applicabile ratione temporis, la norma, laddove fa decorrere il termine per la conclusione del procedimento disciplinare dalla data di prima acquisizione della notizia della infrazione (anche se avvenuta da parte del responsabile della struttura in cui il dipendente lavora) si riferisce non già all'acquisizione della notizia da parte di un qualsiasi ufficio dell'amministrazione ma alla sua acquisizione da parte dell'ufficio per i procedimenti disciplinari e/o del responsabile della struttura in cui il dipendente lavora. Tale principio si applica anche nel caso di tempestività della contestazione (tenendo in considerazione la data in cui l'ufficio per i procedimenti disciplinari riceve gli atti trasmessi dal responsabile della struttura o nella quale il medesimo ufficio ha diversamente acquisito notizia dell'infrazione), in quanto la contestazione può essere ritenuta tardiva solo nel caso in cui l'amministrazione rimanga ingiustificatamente inerte e, quindi, non proceda ad avviare il procedimento, pur essendo in possesso degli elementi necessari per il suo avvio (Cassazione civile , sez. lav. , 21/06/2021 , n. 17603). In tema di pubblico impiego contrattualizzato, ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall'acquisizione della notizia dell'infrazione (D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 55-bis, comma 4) assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell'ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una notizia di infrazione di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l'avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell'addebito, dell'istruttoria e dell'adozione della sanzione. Il suddetto termine non può, pertanto, decorrere a fronte di una notizia che, per la sua genericità, non consenta la formulazione dell'incolpazione e richieda accertamenti di carattere preliminare volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l'addebito. Ciò comporta che la contestazione può essere ritenuta tardiva solo qualora la P.A. rimanga ingiustificatamente inerte, pur essendo in possesso degli elementi necessari per procedere, nel senso anzidetto (Cassazione civile sez. lav., 10/07/2020, n. 14810). Iin tema di pubblico impiego contrattualizzato, ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall'acquisizione della notizia dell'infrazione (art. 55 bis c. 4 d.lgs. n. 165 del 2001), assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell'ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una "notizia di infrazione" di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l'avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell'addebito, dell'istruttoria e dell'adozione della sanzione; b) il suddetto termine non può, pertanto, decorrere a fronte di una notizia che, per la sua genericità, non consenta la formulazione dell'incolpazione e richieda accertamenti di carattere preliminare volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l'addebito; ciò comporta che la contestazione può essere ritenuta tardiva solo qualora la P.A. rimanga ingiustificatamente inerte, pur essendo in possesso degli elementi necessari per procedere, nel senso anzidetto; c) quella indicata è l'unica interpretazione della normativa in oggetto ad essere conforme al principio del giusto procedimento, cui deve conformarsi l'azione della P.A., anche in sede di procedimento disciplinare a carico dei dipendenti, principio che è posto a garanzia dei principi di pubblicità e di trasparenza dell'azione della P.A., ai quali va riconosciuto il valore di principi generali, diretti ad attuare sia i canoni costituzionali di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione (art. 97 c. 1 Cost.), sia la tutela di altri interessi costituzionalmente protetti, come il diritto di difesa nei confronti della stessa Amministrazione (artt. 24 e 113 Cost.), nonchè la tendenza ad indirizzare la suddetta azione al rispetto dei principi di economicità ed efficacia, grazie anche al conseguente deflazionamento del contenzioso derivante dall'emanazione del provvedimento finale (nella specie: di irrogazione della sanzione) sulla base di una corretta e partecipata acquisizione dei fatti rilevanti (vedi, per tutte: Corte costituzionale, sentenza n. 310 del 2010); d) ciò vale anche nell'ipotesi in cui il procedimento disciplinare abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti sui quali è in corso un procedimento penale, per cui sarebbe ammessa la sospensione del primo, e che, comunque, ai fini disciplinari, vanno valutati in modo autonomo e possono portare anche al licenziamento del dipendente (Cass. Lav, 20 maggio 2021, n. 13912). Il termine perentorio di conclusione del procedimento disciplinare previsto dall'art. 55-bis, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001, ratione temporis applicabile, decorre dall'acquisizione della notizia dell'infrazione, da individuarsi all'esito di tutti quegli accertamenti che, secondo una valutazione di ragionevolezza da compiersi ex ante, avrebbero potuto apportare elementi utili alla contestazione della condotta addebitata, o di quelle connesse, nel pieno rispetto dei principi di proporzionalità e adeguatezza della sanzione. (Nella specie, la S.C. ha affermato la corretta individuazione da parte del giudice d'appello della decorrenza di detto termine in corrispondenza del compimento non del primo atto istruttorio utile per la contestazione, ma di un ulteriore atto successivo idoneo, in astratto ed ex ante, non solo a colorare di maggior disvalore l'illecito contestato, ma anche a verificare ulteriori condotte connesse) (Cass. Lav., 28 maggio 2024, n. 14896) In tema di illeciti disciplinari di maggiore gravità imputabili al pubblico impiegato, l'art. 55 bis del d.lgs. n. 165 del 2001, nel disciplinare i tempi della contestazione, mentre impone al dirigente della struttura amministrativa di trasmettere, "entro cinque giorni dalla notizia del fatto", gli atti all'ufficio disciplinare, prescrive a quest'ultimo, a pena di decadenza, di contestare l'addebito entro il termine di quaranta giorni dalla ricezione degli atti, sicché va escluso che l'inosservanza del primo termine, che assolve ad una funzione sollecitatoria, comporti, di per sé, l'illegittimità della sanzione inflitta, assumendo rilievo la sua violazione solo allorché la trasmissione degli atti venga ritardata in misura tale da rendere eccessivamente difficile l'esercizio del diritto di difesa o tardiva la contestazione dell'illecito (Cassazione Civ., 9 marzo 2022, n. 7642)
Nullità della contestazione. Per i procedimenti disciplinari instaurati in relazione ad illeciti commessi dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 75 del 2017 , l'erronea individuazione dell'organo interno alla P.A. titolare del potere disciplinare, nonché il mancato rispetto delle regole di costituzione e funzionamento dello stesso, incidono sulla legittimità della sanzione, espulsiva o conservativa, solo quando emerga che l'ufficio non sia terzo e specializzato, con concreta compromissione delle garanzie difensive dell'incolpato, in quanto l'introduzione dei commi 9 bis e 9 ter nell' art. 55 bis del d.lgs. n. 165 del 2001 ha ristretto l'ambito di applicazione della nullità prevista dal primo comma dell'art. 55 del medesimo decreto, sicché il carattere imperativo della disciplina in esame non è più da sola idonea a determinare, ex art. 1418 c.c. , la nullità della sanzione (Cassazione civile , sez. lav. , 15/11/2022 , n. 33619). In tema di pubblico impiego contrattualizzato, il carattere imperativo delle regole dettate dalla legge sulla competenza per i procedimenti disciplinari, stabilito dagli artt. 55, comma 1, e 55-bis, comma 4, (ora comma 2), del d.lgs. n. 165 del 2001 , va riferito al principio di terzietà ivi espresso e postula solo la distinzione, sul piano organizzativo, fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente, senza attribuire natura imperativa riflessa al complesso delle regole procedimentali interne che regolano la costituzione e il funzionamento dell'U.P.D; ne consegue che, qualora non sia dimostrata la violazione del predetto principio di terzietà o del diritto di difesa, non costituiscono ragione di nullità della sanzione le modalità attraverso cui, nel corso del procedimento disciplinare, si sia proceduto alla sostituzione di taluno dei componenti dell'ufficio stesso. (Cassazione civile, sez. lav., 31/07/2019, n. 20721)
Formalismo. «L’interpretazione dell'art. 55-bis, comma 4, non può essere ispirata ad un eccessivo formalismo ma deve essere coerente con la sua ratio, che è quella di tutelare il diritto di difesa dei dipendenti pubblici» (Cass. n. 3467/2019; conf., ex multis, Cass. n. 19672/2019) (Corte Cass. 1016/24)
Procedimento disciplinare e sospensione cautelare del dipendente. In tema di rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale, l'art. 55-ter del d.lgs. n. 165 del 2001 - secondo cui la pubblica amministrazione datrice di lavoro può disporre la sospensione cautelare del dipendente - non contiene una specifica regolamentazione dei presupposti applicativi del provvedimento, che è destinato ad incidere significativamente nella sfera giuridica del lavoratore e, dunque, richiede la previsione di idonee garanzie; perciò, detti presupposti devono essere rinvenuti aliunde e, cioè, sia nelle norme speciali che prevedono ipotesi di sospensione obbligatoria, sia nella contrattazione collettiva, a cui l'art. 40 del citato d.lgs. rinvia per la disciplina di aspetti non regolati da specifiche norme di legge. (Nella specie, la S.C. ha confermato la pronuncia con cui la Corte d'appello aveva annullato il provvedimento di sospensione, in quanto emesso in assenza del previo rinvio a giudizio, previsto dalla contrattazione collettiva) (Cass. Lav., 19 novembre 2024, n. 29683)
Il licenziamento disciplinare può essere irrogato anche successicamente alla risoluzione del rapporto di lavoro. Ai fini della valida irrogazione del licenziamento disciplinare nel pubblico impiego contrattualizzato, in ragione della peculiarità del rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A. rispetto a quello privato, non è necessario, ai sensi dell'art. 55-bis, comma 9, del d.lgs. n. 165 del 2001 (nella versione ratione temporis applicabile), che l'azione disciplinare sia esercitata prima della risoluzione del rapporto di lavoro, perché anche in caso di successivo avvio del procedimento disciplinare perdura l'interesse dell'Amministrazione all'accertamento della responsabilità disciplinare, in ossequio ai principi di legalità, buon andamento e imparzialità dell'azione amministrativa (Cass. Lav., 27 novembre 2024, n. 30535)
Sanzione disciplinare e verifica della sua proporzionalità da parte del giudice. In tema di pubblico impiego privatizzato, nel giudizio di impugnazione di sanzione disciplinare conservativa inflitta per una pluralità di condotte, il giudice, ove escluda la sussistenza di una parte degli illeciti contestati, è tenuto a verificare la proporzionalità della sanzione rispetto agli addebiti accertati, tenendo conto della tipizzazione degli illeciti e delle sanzioni contenute nel codice disciplinare e, a fronte di un riscontrato difetto di proporzionalità, deve rideterminare la sanzione ai sensi dell'art. 63, comma 2-bis, d.lgs. n. 165 del 2001, come modificato dal d.lgs. n. 75 del 2017, anche senza un'espressa domanda in tal senso delle parti (Cass. Civile, Lav., 25 gennaio 2025, n. 1818)
Trasferimento del personale
Trasferimento di personale tra enti pubblici non economici. Ai sensi dell'art. 31 del d.lgs. n. 165 del 2001, nel caso di invalidità del trasferimento di attività accertata giudizialmente, il rapporto di lavoro permane con l'ente trasferente e se ne instaura uno nuovo e diverso con l'ente trasferitario presso cui il dipendente abbia materialmente continuato a lavorare; ne consegue che la responsabilità per violazione dell'art. 2103 c.c. deve essere imputata a quest'ultimo ente, in quanto l'incardinamento del lavoratore nei suoi ruoli, per quanto poi caducato, non può esimere l'ente in questione dalle responsabilità datoriali conseguenti alla relazione di fatto che si è nelle more instaurata. (Cassazione civ., lav., 14 dicembre 2021, n. 39896)
Comando
Il comando: L’istituto del comando – che trova la sua originaria disciplina nell’art. 56 del d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato) – assume peculiare rilievo quale strumento funzionale alle esigenze organizzative delle amministrazioni pubbliche, che incide, tuttavia, profondamente sulla regolazione giuridica del rapporto di lavoro, in riferimento alle stesse modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e della disciplina dei suoi diversi profili, anche retributivi. Si configura, difatti, una peculiare situazione giuridica, e al tempo stesso fattuale, nella quale il soggetto in comando resta dipendente dell’amministrazione datrice di lavoro, ma espleta la prestazione presso una diversa amministrazione. Ciò implica la necessità di disciplinare i rapporti che intercorrono fra il dipendente e le due amministrazioni interessate, nonché gli stessi rapporti, anche sotto il profilo degli oneri connessi alla retribuzione del lavoratore in comando, tra amministrazione titolare del rapporto e amministrazione presso la quale il dipendente presta servizio, posto che la gestione del rapporto spetta al primo, mentre all’ente in cui il dipendente espleta la propria attività compete la gestione della prestazione lavorativa. Aspetti tutti, dunque, riconducibili all’«ordinamento civile» e per i quali è necessario configurare una disciplina omogenea, nel concorso fra legge e autonomia collettiva, sul territorio nazionale in un quadro organico e funzionale, anche per evitare sovrapposizioni di discipline diversificate e non conciliabili. A tal fine, non a caso il d.lgs. n. 165 del 2001, nel disciplinare il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, interviene anche sull’istituto in esame. In particolare, l’art. 30, comma 2-sexies, stabilisce che le pubbliche amministrazioni, per motivate esigenze organizzative, «possono utilizzare in assegnazione temporanea personale di altre amministrazioni per un periodo non superiore a tre anni, fermo restando quanto già previsto da norme speciali sulla materia, nonché il regime di spesa eventualmente previsto da tali norme e dal presente decreto», come disposto al riguardo anche dal successivo art. 70, comma 12, richiamato dal Presidente del Consiglio dei ministri, che prevede il rimborso, da parte dell’amministrazione utilizzatrice, all’amministrazione di appartenenza, dell’onere relativo al trattamento fondamentale. Il legislatore siciliano, nel disporre l’applicazione anche al personale comandato del contratto collettivo applicabile ai dipendenti dell’ARPA, interviene dunque oggettivamente in materia demandata alla competenza statale, violando in tal modo l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. (Corte costituzionale, 23 luglio 2018, n. 172 - cfr anche Corte costituzionale, 30 ottobre 2020, n. 227)
Titolarità del rapporto e potere di gestione. Il comando al quale si riferisce l'art. 30 del d.lgs. n. 165/2001 è l'istituto originariamente disciplinato dall'art. 56 del d.P.R. n. 3/1957 ed è ravvisabile allorquando il dipendente viene destinato a prestare servizio, in via ordinaria e abituale, presso un'amministrazione diversa da quella di appartenenza, circostanza, questa, che determina una dissociazione fra titolarità del rapporto d'ufficio, che resta immutata, ed esercizio dei poteri di gestione, in quanto «fermo restando il cd. rapporto organico (che continua ad intercorrere tra il dipendente e l'ente di appartenenza), si modifica il cd. rapporto di servizio, atteso che il dipendente è inserito, sia sotto il profilo organizzativo funzionale, sia sotto quello gerarchico e disciplinare, nell'amministrazione di destinazione, a favore della quale egli presta esclusivamente la sua opera» (Cass. 8.9.2005 n. 17842) (Cassazione civ., lav., 24 giugno 2020, n. 12498)
Distacco
Il distacco: Il distacco del quale qui si discute è, invece, un istituto invalso nella prassi, da non confondere con quello disciplinato dall'art. 30 del d.lgs. n. 276/2003, e comporta solo l'utilizzazione temporanea del dipendente pubblico presso un ufficio diverso da quello che costituisce la sua sede di servizio, distinguendosi dalla trasferta in quanto risponde ad esigenze di entrambe le parti del rapporto mentre quest'ultima è disposta unilateralmente dal datore di lavoro, nell'esclusivo suo interesse; è evidente, pertanto, che la disposizione invocata dalla ricorrente non possa trovare applicazione, neppure in via analogica, perché il ricorso all'analogia è consentito dall'art. 12 delle preleggi solo quando manchi nell'ordinamento una specifica disposizione regolante la fattispecie concreta e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede giudiziaria (Cass. n. 2015/2656), mentre nella specie viene in rilievo il potere del datore di lavoro pubblico di assegnazione del dipendente ad una determinata sede di lavoro anziché ad altra, potere che è già compiutamente disciplinato dalla legge (d.lgs. n. 165/2001, art. 2103 cod. civ.) e dalla contrattazione collettiva” (Cassazione civ., lav., 24 giugno 2020, n. 12498)
Il potere del datore di lavoro: Non si ravvisano disposizioni che impediscano al datore di lavoro pubblico, il quale esercita nella gestione del rapporto i medesimi poteri di quello privato, di disporre, in via momentanea e con il consenso del dipendente, l'assegnazione ad una sede diversa da quella di servizio (Cassazione civ., lav., 24 giugno 2020, n. 12498)
Differenze retributive lamentate da personale in comando/assegnazione: qualora l'impiego del lavoratore presso altro datore di lavoro soddisfi anche l'interesse dell'originario datore di lavoro questi non può ritenersi liberato da responsabilità di carattere patrimoniale in relazione all'attività espletata dal proprio dipendente presso altri (si vedano Cass. n. 11768 del 2015)”(Cassazione civ., lav., 19 marzo 2018, n. 6787)
Differenze tra delega di firma e delega di funzione. La delega di firma si verifica quando un organo, pur mantenendo la piena titolarità circa l’esercizio di un determinato potere, delega ad altro organo, ma anche a funzionario non titolare di organo, il compito di firmare gli atti di esercizio dei potere stesso: in questi casi l’atto firmato dal delegato, pur essendo certamente frutto dell’attività decisionale di quest’ultimo, resta formalmente imputato all’organo delegante, senza nessuna alterazione dell’ordine delle competenze (Cass. n. 6113 del 2005). Al contrario, l’istituto di diritto pubblico della «delegazione amministrativa» di competenze assume rilevanza esterna, ragion per cui si richiede che sia disciplinato per legge, attuandosi, mediante adozione di un formale atto di delega, l’attribuzione ad un diverso ufficio od ente di poteri in deroga alla disciplina normativa delle competenze amministrative (c.d. delega di funzioni). Appare evidente la differenza fra le due figure: la «delega di firma» realizza un mero decentramento burocratico in quanto il «delegato alla firma» non esercita in modo autonomo e con assunzione di responsabilità i poteri inerenti alle competenze amministrative riservate al delegante, ma agisce semplicemente come longa manus – e dunque in qualità di mero sostituto materiale – del soggetto persona fisica titolare dell’organo cui è attribuita la competenza. L’atto di «delegazione della competenza» ha, invece, rilevanza esterna, essendo suscettibile di alterare il regime della imputazione dell’atto, al contrario di quanto si verifica nell’ipotesi della mera delega di firma, nella quale il delegante rimane l’unico ed esclusivo soggetto dal quale l’atto proviene e del quale si assume la piena responsabilità verso l’esterno (Cass. n. 11013 del 2019) (Cassazione, Sezione V, Civile, 9.9.2022, n. 26694)
Rinnovo di incarico dirigenziale. In tema di impiego pubblico contrattualizzato, va esclusa la validità della clausola di rinnovo automatico di un contratto di conferimento di incarico dirigenziale, in quanto il potere datoriale, afferendo ad ineludibili scelte che attengono alla struttura e ai fini dell'organizzazione pubblica, deve manifestarsi "ex novo" all'atto del possibile rinnovo, con l'osservanza dello stesso procedimento previsto per la prima stipulazione, valutando in quel momento, in modo combinato, risultati pregressi e piani ed obiettivi futuri (Cass. Lav., 7 aprile 2022, n. 11376)
Istituzione della posizione organizzativa. La Corte ha più volte affermato (cfr. fra le tante Cass. nn. 15902/2018; 4890/2018; 28085/2017; 12724/2017; 12556/2017; 14591/2016; 2550/2015; 11198/2015) che il diritto del pubblico dipendente a percepire l'indennità di posizione sorge solo se la P.A. datrice di lavoro ha istituito la relativa posizione, perché l'istituzione rientra nell'attività organizzativa dell'Amministrazione la quale deve tener conto delle proprie esigenze e soprattutto dei vincoli di bilancio, che, altrimenti, non risulterebbero rispettati laddove si dovesse pervenire all'affermazione di un obbligo indiscriminato; è stato precisato anche che l'esclusiva rilevanza da attribuire all'atto costitutivo delle posizioni organizzative, adottato discrezionalmente, comporta che è da escludere che prima dell'adozione di tale atto sia configurabile un danno da perdita di chance per il dipendente che assuma l'elevata probabilità di essere destinatario dell'incarico e l'irrilevanza, ai suddetti fini, di eventuali atti preparatori endoprocedimentali nonché dell'espletamento di fatto di mansioni assimilabili a quelle della posizione non istituita; 3.2. i richiamati principi sono stati affermati da Cass. n. 11198/2015 e da Cass. n. 15902/2018 anche in relazione alla disciplina dettata dal CCNL 31.3.1999 di revisione del sistema di classificazione del personale per il comparto delle regioni e delle autonomie locali e si è evidenziato, in continuità con quanto già statuito da Cass. S.U. n. 16540/2008, che l'apparente diversità di formulazione delle disposizioni contrattuali rispetto a quelle ad altri comparti non legittima conclusioni diverse, in quanto le esigenze di servizio sono comunque valorizzate nell'art. 9, che subordina l'istituzione delle posizioni organizzate all'attuazione dei principi di razionalizzazione previsti dal D.Lgs. n. 29 del 1993 (all'epoca vigente), alla ridefinizione delle strutture e delle dotazioni organiche dell'ente, all'istituzione e attivazione dei servizi di controllo interno o dei nuclei di valutazione (Cassazione civ., lav., 9 novembre 2021, n. 32950). Nel pubblico impiego privatizzato, la posizione organizzativa si distingue dai profilo professionale e individua nell'ambito dell'organizzazione dell'ente funzioni strategiche e di alta responsabilità che giustificano il riconoscimento di un'indennità aggiuntiva: ove il dipendente venga assegnato a svolgere le mansioni proprie di una posizione organizzativa, previamente istituita dall'ente e ne assuma tutte le connesse responsabilità, la mancanza o l'illegittimità del provvedimento formale di attribuzione non esclude il diritto a percepire l'intero trattamento economico corrispondente alle mansioni di fatto espletate, ivi compreso quello di carattere accessorio, che è diretto a commisurare l'entità della retribuzione alla qualità della prestazione resa" (Cass. n. 8141 del 2018). Già Sez. U n. 3814/2011 aveva stabilito che "In caso di reggenza del pubblico ufficio sprovvisto temporaneamente del dirigente titolare, vanno incluse, nel trattamento differenziale per lo svolgimento delle mansioni superiori, la retribuzione di posizione e quella di risultato, atteso che l'attribuzione delle mansioni dirigenziali, con pienezza di funzioni e assunzione delle responsabilita inerenti al perseguimento degli obbiettivi propri delle funzioni di tatto assegnate, comporta necessariamente, anche in relazione al principio di adeguatezza sancito dall'art. 36 Cost., la corresponsione dell'intero trattamento economico, ivi compresi gli emolumenti accessori" (conforme Cass. n. 9878 del 2017) (Cass, lav., Ordinanza 20 giugno 2022, n. 19773)
Impugnazione dell’avviso di mobilità volontaria. Rientra nella giurisdizione del Giudice ordinario una controversia avente ad oggetto l’impugnazione in s.g. dell’avviso pubblico indetto da una Amministrazione provinciale per mobilità volontaria esterna, e del provvedimento di approvazione della successiva graduatoria. Con riferimento al tema della mobilità per passaggio diretto tra PP.AA., disciplinata attualmente dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 30, integrando siffatta procedura una mera modificazione soggettiva del rapporto di lavoro con il consenso di tutte le parti e, quindi, una cessione del contratto, la giurisdizione sulla controversia ad essa relativa spetta al giudice ordinario, non venendo in rilievo la costituzione di un nuovo rapporto lavorativo a seguito di procedura selettiva concorsuale e, dunque, la residuale area di giurisdizione del giudice amministrativo di cui al D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63, comma 4; ciò anche quando le procedure di mobilità siano effettuate tramite “bandi”, esse coinvolgono “solo una capacità di diritto privato di acquisizione e gestione di personale, in senso trasversale, da una P.A. ad un’altra, da esercitare secondo le regole per essa previste, ma senza che ne siano coinvolti poteri autoritativi” (TAR Puglia, 15 luglio 2022, n. 1236)
Diniego congedo retribuito. In tema di impiego pubblico privatizzato, ai sensi dell'art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, la controversia avente ad oggetto il diniego di congedo retribuito, richiesto dal lavoratore, ai sensi dell'art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, per prestare assistenza ad un familiare convivente con handicap in situazione di gravità, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, essendo il diniego un atto di gestione del rapporto di lavoro fra la pubblica amministrazione e il dipendente che, pertanto, esula dall'ambito dei provvedimenti amministrativi autoritativi e si compendia in un atto adottato in base alla capacità e ai poteri propri del datore di lavoro privato, rispetto al quale sono configurabili soltanto diritti soggettivi (Cassazione civ., Sezioni Unite, 30 marzo 2022, n. 10215)
Controllo difensivo sui dipendenti. Giova premettere che per “controlli difensivi” sui dipendenti s'intendono i controlli diretti ad accertare comportamenti estranei al rapporto di lavoro illeciti o lesivi del patrimonio e dell'immagine aziendale e dunque non volti ad accertare l'inadempimento delle ordinarie obbligazioni contrattuali (cfr. Cass., sez. lav., 5.10.2016, n. 19922). […] Secondo un ormai consolidato orientamento di questa Corte, in tema di cd. sistemi difensivi, sono consentiti, anche dopo la modifica dell'art. 4 st. lav., ad opera dell'art. 23 del d.lgs. n. 151 del 2015, i controlli anche tecnologici posti in essere dal datore di lavoro finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti, in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purché sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all'insorgere del sospetto (in tal senso Cass., sez. lav., 12.11.2021, n. 34092; id., sez. lav., 22.9.2021, n. 25732). Confermandosi che la legittimità dei controlli cd. difensivi in senso stretto presuppone il “fondato sospetto” del datore di lavoro circa comportamenti illeciti di uno o più dipendenti, è stato, quindi, specificato che spetta al datore di lavoro l'onere di allegare, prima, e di provare, poi, le specifiche circostanze che l'hanno indotto ad attivare il controllo tecnologico ex post, sia perché solo il predetto sospetto consente l'azione datoriale fuori del perimetro di applicazione diretta dell'art. 4 st. lav., sia perché, in via generale, incombe sul datore, ex art. 5 l. n. 604 del 1966, la dimostrazione del complesso degli elementi che giustificano il licenziamento (Cass., sez. lav., 26.6.2023, n. 18168). Ebbene, nel secondo motivo la ricorrente assume essere indubbio “che i controlli eseguiti dagli uffici amministrativi della (OMISSIS) Spa sui rendiconti degli apparati Telepass, sui contratti con i clienti, sui rapporti di servizio e sui conseguenti addebiti, siano finalizzati anche a prevenire un abuso di tali apparati da parte dei dipendenti” (Corte Cass, sez. lav. 3 giugno 2024, n. 15391)
Articolo 16 legge 56/87. Interventi della PA sulla procedura. Limiti. In caso di espletamento di procedure di avviamento alla selezione degli iscritti alle liste di collocamento e mobilità ex art. 16 della l. n. 56 del 1987 e succ. modif. ai fini dell'assunzione di lavoratori da inquadrare nei livelli retributivo-funzionali per i quali non è richiesto titolo di studio superiore a quello della scuola dell'obbligo, la pubblica amministrazione può intervenire sulla procedura solo ove questa si sia svolta in contrasto con la normativa vigente o con quanto stabilito nel decreto che vi ha dato inizio. (Nella specie, la S.C. ha escluso che la P.A. possa annullare o revocare gli atti della prova di esame già espletata, in ragione dell'eccessiva complessità della stessa, sia perché solo la commissione esaminatrice può predisporla e stabilirne il livello di difficoltà, sia perché gli interessati che l'abbiano superata e si trovino in posizione utile hanno un diritto soggettivo al completamento della procedura e all'assunzione) (Legge 28/02/1987 n.56 art. 16. Massime precedenti: N. 15223 del 2016 N. 11906 del 2017, N. 25018 del 2017) (Cass. civ. 15 marzo 2024, n. 7068)
Articolo 16 legge 56/87. Diritto soggettivo all'assunzione. In tema di avviamento a selezione ex art. 16 della l. n. 56 del 1987, il diritto soggettivo all'assunzione del lavoratore, ancorché utilmente collocato in graduatoria, sorge all'esito del completamento del procedimento (cioè, dopo la valutazione positiva della prova di idoneità), ma per la costituzione del rapporto è necessaria la stipulazione del contratto e la specificazione dei relativi elementi essenziali; ne consegue che, dopo il completamento della prova, l'indebito annullamento o revoca degli atti della procedura, consente al lavoratore utilmente collocato in graduatoria di ottenere dal giudice, oltre alla condanna al risarcimento dei danni, la pronunzia, ex art. 2932 c.c., di sentenza costitutiva del rapporto di lavoro con la P.A., sempreché, però, gli elementi essenziali del rapporto di lavoro - qualifica, mansioni e trattamento economico normativo – siano indicati dalla legge o dalla contrattazione collettiva (Massime precedenti Vedi: N. 24392 del 2022, N. 15913 del 2004, N. 11906 del 2017, N. 31407 del 2021) (Cass. civ. 15 marzo 2024, n. 7068)